28/09/2005 – Il Presidente dell’Algeria punta tutto sul referendum
Domani, 29 settembre 2005, il popolo algerino andrà alle urne. Di solito si vota per i proprio futuro, ma sembra che in Algeria si esprima un voto diverso: un voto sul passato. Da quando è finita la guerra civile, che tanti morti è costata al Paese, l’Algeria cerca di ricominciare a vivere. Ma troppo forte resta la lacerazione di una giustizia che non è riuscita a punire i colpevoli. L’artefice, nel bene e nel male, della rinascita algerina dopo la ‘guerra sporca’ è stato Abdelaziz Bouteflika, il Presidente della Repubblica. Da quando è salito al potere la sua linea rispetto ai crimini commessi durante la guerra, sia quelli dei militari sia quelli dei fondamentalisti, è sempre stata quella della pietra sopra. Prima l’amnistia e adesso il referendum. L’obiettivo è quello di chiudere i conti con il passato, consegnando alla storia i massacri e all’oblio i loro responsabili. Più che un voto su questo però, sembra essere lo stesso operato del Presidente sotto esame: ha vinto ed è stato confermato come Presidente dell’Algeria perché era l’uomo della pacificazione. Visti gli scarsi risultati, con centinaia di morti negli scontri tra militari e fondamentalisti, adesso prova la carta definitiva: chiudere con il passato. Ma chi è Bouteflika? Ecco la sua storia raccontata da un giornalista algerino.

 Scritto per noi da  Karim Metref

Si chiama Abdelaziz Bouteflika.

È nato nella città marocchina di Oujda, a pochi chilometri da Tlemcen, città d’origine della sua famiglia. Una famiglia agiata di commercianti, che ha dato a lui l’opportunità rara a quell’epoca per i figli del popolo di proseguire gli studi fino all’università, in Marocco, dove frequenta i primi anni nella facoltà di filosofia, prima di interrompere il suo percorso universitario per raggiungere l’organizzazione politica del Fronte di Liberazione Nazionale, nei campi profughi di Oujda. Appena ventenne, entra subito a far parte di quella classe di giovani ambiziosi che hanno utilizzato il Malg (antenato dei servizi segreti algerini) e le truppe dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ALN), stazionate in Marocco e in Tunisia, nei campi profughi, per il loro uso personale. Questi uomini entrano in Algeria il giorno stesso della proclamazione dell’indipendenza, il 5 luglio 1962.

I massacri francesi.

Arrivarono su macchine nuove di zecca e su mezzi blindati, alla testa di un “Esercito delle Frontiere” ben nutrito, ben attrezzato e composto da giovani sani e ben addestrati. Sanno di avere il sostegno di tutti i regimi arabi dell’epoca, con Nasser in testa. Prenderanno il potere, manu militari ma quasi senza rumore, dalle mani tremanti di un esercito interno stremato da sette anni di guerra spietata contro uno delle prime potenze militari del mondo.

Si sa benissimo che la guerra d’Algeria non fu una vittoria militare. La Francia ha operato un vero e proprio macello. Più di un milione di morti, di cui la maggioranza civili. L’Esercito di Liberazione Nazionale (quello dell’interno), già verso il 1960, era quasi decimato.

Mentre da una parte abbozzava i primi negoziati segreti con i rappresentanti politici del Fronte di Liberazione Nazionale, il governo francese già dalla fine degli anni Cinquanta intraprende una serie di operazioni vigorose. Il ministro francese della Difesa dell’epoca André Morice, lancia sulle frontiere la costruzione di una barriera fisica composta da varie linee di filo spinato elettrificato su  un terreno imbottito di mine antiuomo per isolare l’Algeria dal Marocco e dalla Tunisia, la cosidetta Ligne Morice, impedendo così l’arrivo di armi, munizioni e altre attrezzature nelle campagne algerine.

Le montagne della Cabila e dell’Aures, le più frequentate dai partigiani, sono messe sotto torchio, operazioni militari di grande dimensione come quella chiamata Opération Jumelle mettono a dura prova la resistenza dei ribelli. Infine, i parà di Massu impiegano meno di due anni per sradicare la famosa guerriglia urbana di Ben Mhidi Yacef Saadi, più nota come la battaglia di Algeri.

La fine di un’epoca.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è benbella.jpgAlla fine le pressioni internazionali, l’opinione pubblica internazionale e anche quella francese stanca dalla guerra, spingono il governo di Parigi alla negoziazione. Il risultato è il referendum di autodeterminazione del 1961 in cui trionfa l’indipendenza di quella che fu, come l’India per i britannici, il gioiello della corona imperiale francese.

Bouteflika divenne ben presto uno dei più giovani ministri degli Esteri dell’epoca. Aveva soltanto 25 anni quando è stato investito della carica nel settembre 1962, sotto il primo presidente della Repubblica Algerina Democratica e Popolare, Ahmed Ben Bella. Bouteflika restò nei circoli del potere fino alla morte del secondo presidente della storia dell’Algeria,  Houari Boumedienne, nel 1979. Dal 1979 fino al 1999, per 20 anni, “Boutef” si fa dimenticare. Viaggia molto. Approfitta delle relazioni costruite durante la sua carriera diplomatica (ma anche dei fondi sottratti al ministero, secondo alcuni) per fare affari ed arricchirsi.

Quando si ripresenta sulla scena politica, nel 1998, il paese è distrutto da 7 anni di guerra civile. La lotta al terrorismo, rimasta per anni compito esclusivo di un pugno di generali detti “sradicatori” (cioè fautori del pugno di ferro, della politica del “tutto-militare”, non soltanto nei confronti dei gruppi armati ma dell’islamismo militante in genere) è un vero disastro.

Il risultato lo conosciamo. Centinaia di migliaia di vittime. Il terrore si espande su tutto il territorio. Il paese è messo in ginocchio. I settori produttivi girano a meno del 20 per cento delle loro capacità. Le terre agricole sono abbandonate. L’edilizia è quasi ferma, in un paese dove la crisi degli alloggi è già gravissima…

La necessità di cambiare.

Diventa chiaro che bisogna trovare delle soluzioni politiche, che la repressione selvaggia e, ancora peggio, le manipolazioni sanguinarie dell’epoca dei massacri non fanno altro che sprofondare il paese sempre più nel caos.

Larghi reparti del potere e dell’esercito cominciano a organizzarsi. Si cerca una persona che abbia ancora un po’ di credibilità per ripartire e per gestire il futuro dell’Algeria.

L’allora presidente Lamine Zeroual non era un politico. Era un semplice ufficiale dell’esercito in pensione, chiamato alla presidenza del paese proprio perché dilettante, mai coinvolto nelle lotte dei vari clan che attraversano ancora oggi l’apparato dello Stato e ne controllano le istituzioni, neutrale in qualche modo. Ma Zeroual non è l’uomo della situazione. Non può dare una svolta decisiva al Paese. È troppo debole nei confronti dei generali.

Ci voleva una “grossa cilindrata”. Uno abbastanza agguerrito e nel tempo stesso rimasto da parte durante le ultime lotte tra “sradicatori” e “riconciliatori”. Di certo non un altro ingenuo come Mohamed Boudiaf, ucciso in diretta televisiva, mentre rivolgeva un discorso alla nazione, per aver voluto toccare, con i suoi metodi goffi, gli interessi dei generali. È per tutto questo che “Boutef” (come viene subito soprannominato dalla stampa), all’epoca, fu l’uomo giusto al posto giusto.

L’uomo della provvidenza.

Stranamente, la schiera di generali che detenevano il potere in Algeria da più di 20 anni, erano tutti ex-ufficiali dell’esercito francese, durante la guerra di liberazione. Appena abbozzati i negoziati per l’autodeterminazione dell’Algeria, nel 1958, si verificano varie  diserzioni di giovani sottoufficiali algerini (spesso da poco elevati al rango di luogotenenti). La chiamano la promozione Lacoste, del nome del governatore francese di Algeri, Robert Lacoste, accanito sostenitore de “l’Algérie française”. Queste giovani “teste calde”, però, non vanno a raggiungere i partigiani per farsi massacrare sulle montagne. Vanno a mettersi in salvo, in Tunisia e in Marocco, nell’ “Esercito delle frontiere”, laddove si giocava veramente il futuro del Paese.

Durante i quattro decenni che hanno seguito l’indipendenza, loro, si sono mossi lentamente ma con metodo, tutti insieme, tenendosi gli uni gli altri come dei veri scalatori, sempre verso l’alto della piramide. Fino ad arrivare negli anni Novanta a essere i veri padroni del Paese.

Il regno dei generali serve quindi anche a mantenere l’Algeria in quello che i potenti hanno definito, durante la divisione del mondo a Yalta, come “l’area d’influenza” della Francia. Solo che dalla caduta del muro di Berlino e dalla conseguente fine della Guerra Fredda, non c’è più nessuna ragione di rispettare gli accordi di Yalta. E poi era già da anni che i nuovi padroni del mondo guardavano con l’acquolina in bocca questo pezzo di ricca terra africana zuppo di petrolio e di minerali pregiati.

Il regno di Boutef.

Tra l’Occidente e Abdelaziz Bouteflika le relazioni sono ottime, anche se quest’ultimo fu ministro nel governo “anti-imperialista” di Boumedienne. E’ durante gli anni di viaggi e di affari, soprattutto nei paesi del Golfo, filo-occidentali, che Boutef e gli Stati occidentali hanno imparato ad apprezzarsi a vicenda.

Sono gli Stati Uniti il suo sponsor principale quando arriva ad Algeri per annunciare la sua candidatura a Presidente della Repubblica. È l’ambasciatore americano che tutta l’opposizione va a trovare per chiedere garanzie per la regolarità del processo elettorale. Ciò nonostante, le elezioni non saranno regolari… ma questa è un’altra storia.

Il primo mandato di “Boutef” era dedicato quasi esclusivamente al rafforzamento del suo potere. E non fu una partita facile. Ha dovuto fare fronte ad un attacco frontale da parte di alcuni generali e della stampa a loro fedele. Il rapimento di 30 turisti svizzeri e tedeschi era un segno chiaro della DRS, l’organismo che ha fatto da capo d’orchestra nella manipolazione dei gruppi armati durante “La sporca Guerra”.

Il quotidiano Le Matin, con dietro il potente generale Mohamed Lamari, allora capo dello stato maggiore, faceva una vera e propria guerra all’immagine del presidente. Svelava tutti i giorni degli scandali in cui era coinvolto lui o alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Il direttore del giornale pubblica, in Francia, un libro che diventa subito un best seller dal titolo “Bouteflika, un impostura algerina”.

Buona parte del Fronte di Liberazione Nazionale, il partito storico al quale è sempre appartenuto il Presidente, si è schierato in massa per lo sfidante: Ali Benfliss. La Cabilia era a fuoco e a sangue per più di due anni. Tutto sembrava andare contro Boutef. Ma la storia provò il contrario. Il secondo mandato è conquistato con più del 80 per cento delle preferenze.

Un risultato che non riflette la popolarità del presidente, ma riflette benissimo il peso che ha il candidato del sistema e la sua mano messa sui servizi di sicurezza e sull’apparato amministrativo. Oggi, Benfliss, insieme al partito FLN, è rientrato nei ranghi; il Generale Lamari è stato dimissionato, gli altri generali sono corsi a baciare la mano del presidente rieletto. Il giornale Le Matin è chiuso e il suo direttore Benchicou marcisce in prigione senza che nessuno se ne preoccupi, mentre il “piccolo Boutef” regna su tutto senza condivisione… O quasi.
Pubblicato da Peace Reporter